Chi
ha ucciso Pantani?
Mi è
sembrato opportuno accogliere il consiglio dell’amico Raffaele, e
riportare sulle pagine del Portale
fotografico Setino l’articolo
del Direttore di “La Repubblica.it” Vittorio Zucconi,
pubblicato all'indomani della scomparsa di Marco Pantani. Nel suo
articolo il Direttore, senza retorica, sbatte in faccia ai lettori
quelli che sono i veri colpevoli della morte di Pantani, ricordando Valori
Umani che tutti noi ipocritamente consideriamo solo e non prima
della tragedia, salvo poi continuare ad essere "schiavi" di un
assurdo circo.
Nel
sottolineare quanto si condividono le parole di Zucconi, specifichiamo
che non è nostra intenzione pubblicare sul sito una pagina
commemorativa, ma un monito per tutti a riconsiderare le follie che
spesso ci propinano mezzi di comunicazione complici di “sedicenti”
ambienti sportivi dove dello sport è rimasto solo il nome.

ritratto
del Cristo n°1 2002- di Francesco Italiani
LA
DROGA
di
Vittorio Zucconi (La Repubblica)
Non è il doping, non è la solitudine,
non è l'eritropoietina, non sono stati gli antidepressivi o che altro
ci fosse nei flaconi che aveva con sè nell'ultima stanza della sua
vita, a uccidere Marco Pantani. Siamo stati noi, i tifosi, gli
appassionati, i lettori di giornali e i consumatori di telefinzioni, che
costruiamo idoli più grandi della vita e poi li scarichiamo come
simulacri vuoti di gesso dimenticando che essi non sono ciclisti,
centravanti, pugili ma esseri umani spesso fragilissimi, a ucciderlo.
Su tutti coloro che lavorano in pubblico, che siano ballerine o tenori,
sportivi professionisti o giornalista, politicanti o comici, pesa
l'incubo della oscurità, della morte civile, della vecchiaia. Ma su
nessuno, come su un campione dello sport, il raggio di luce è più
effimero, la vita professionale è più breve, il futuro più vuoto.
Infanzie e adolescenze consumate nell'impadronirsi di tecniche complesse
ma completamente inutili, il controllo della palla, il colpo di pedale,
le tattiche, il jab destro o sinistro, la corretta esecuzione di un tiro
libero, si bruciano in pochi anni, al massimo in un decennio per i più
fortunati. E alla metà dei trent'anni, quando la vita per una donna o
un uomo qualsiasi è appena cominciata e resta statisticamente un mezzo
secolo da vivere, si trovano - a volte - con le tasche piene e il cuore
vuoto. Un cantante può trascinare la propria carriera gigioneggiando
oltre i sessant'anni, come un Pavarotti, un giornalista può scrivere
fino a novant'anni, come i Montanelli, i Biagi o gli Scalfari. Ma
Ronaldo a sessant'anni non giocherà più e nessuno vincerà un Tour a
cinquant'anni, neppure il miracoloso Armstrong.
La ghigliottina del tempo e dell'oscurità è tanto più terribile
quando più sontuoso è stato il piedistallo costruito dallo "sport
business" sotto i piedi della vittima e soprattutto in sport
individuali come il ciclismo. E il palco non è mai stato enorme come lo
è oggi, quando l'adorazione popolare per il campione del momento si fa
industria colossale attorno a lui o lei.
continua
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Investimenti da media industria sono
fatti attorno ai legamenti, agli adduttori, ai polpacci, alle ossa, alle
mani, ma quasi mai attorno al cervello e all'anima, di uno sportivo, che
in cambio deve produrre, perché nessuno regala nulla. Il
"prodotto" deve giocare anche quando non è in forma, anche se
non ne ha voglia, perché costa un sacco di soldi, perché la chirurgia
e l'ortopedia e la medicina oggi sono in grado di riparare organismi che
ancora pochi anni or sono avrebbero ceduto.
Il doping, qualunque cosa questa parola troppo generica significhi
(un'infiltrazione di cortisone e novocaina per far giocare chi non
sarebbe altrimenti in grado di farlo è doping?) non è la causa, è
l'effetto di una situazione nella quale ragazzi quasi sempre
profondamente immaturi, mal consigliati, circondati da sicofanti e
leccapiedi interessati che gli congelano lo sviluppo psicologico per
trasformarli in eterni bambini, si trovano davanti alla pillola o alla
siringa che può fare la differenza tra una vita al banco di un bar o
l'apoteosi sui Pirenei. Si può chiedere a un ragazzo africano un po'
gracilino la scelta eroica di restare pulito in Nigeria o in Sierra
Leone a pascolare le capre, anziché pomparsi per diventare appetibile
al Manchester, al Chelsea, al Milan, alla Juve o anche soltanto al
Perugia?
Con quali paraocchi possiamo, noi cannibali del tifo che danziamo
attorno al pentolone dove bolle la vittima, chiedere a calciatori di
fare 80 partite all'anno, a ciclisti di fare tappe di montagna a medie
che sarebbero difficili da tenere guidando una buona automobile e
stancherebbero il guidatore, bevendo l'acqua dell'uccellino di Del Piero
o le aranciate con un pizzico di sale dentro? Ma chi prendiamo per il
sedere, noi stessi o loro? Quanto sarebbe stato grande, il
"Pirata", se avesse avuto la forza di andare in tv, quel
giorno orrendo della squalifica, e dirci, ma state zitti, branco di
ipocriti sanguinari che pur di provare il brivido surrogato della
vittoria attraverso di noi sareste pronti a imbottirci di tritolo, altro
che eritropoietina, ma preoccupatevi dei vostri figli, ma aprite gli
occhi, ma non lo sapete che qui si pompano tutti, se vogliono vincere?
Non lo ha fatto perché aveva sperato ancora di tenere lontano da sè la
fine della propria vita, cioe il ciclismo, che era la sua vita. La lunga
discesa verso l'oscurità che attende il 99,9 di coloro che oggi sono
"i nostri eroi" è terribile per tutti, e può essere mortale
per chi, come Marco Pantani, non scende, ma precipita di schianto nella
trappola spalancata sotto i piedi. La decompressione dell'idolo può
essere mortale, come per un sommozzatore, se la risalita è troppo
violenta. La scoperta di essere soltanto pezzi di una macchina che
saranno sostituiti e dimenticati, come il pistone o lo scappamento, se
non funzionano più bene, ha effetti micidiali, se il "pezzo"
non ha sempre avuto la coscienza di essere, appunto, soltanto questo, un
attore in in show che altri possono recitare. Ma chi riesce a mantenere
la prospettiva della realtà, quando ogni minuto della vita è
circondato da cortigiani e agitatori di flabelli?
Quei minuti di silenzio, quella retorica in scatola e quei bracciali a
lutto sono maquillage autogiustificatorio di chi sa di avere code di
paglia lunghe come i tapponi pirenaici. Non possono nascondere la
ferocia cannibalistica di un mondo dello "sport business" che
mastica e sputa i bocconi, quando perdono il sugo e il sapore. Non ci
saranno mai leggi o alambicchi che possano riconoscere e combattere il
"doping" mentale che avvelena lo sport e del quale il
"doping" farmacologico è soltanto l'effetto secondario. Per
questo, come per tutti i vizi, la cosa più difficile non è cominciare,
ma smettere. Marco Pantani è morto da "tossicodipendente"
dello sport al quale è stata tolta la droga che noi, i suoi adoratori e
carnefici, gli avevamo venduto. Il resto è retorica.
PS: Niente commenti alle - per lo più squallide - partite della
giornata. La morte di Pantani toglie ogni desiderio di fare battute,
persino sull'Inter.
di
Vittorio Zucconi (La Repubblica)
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