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Il Pane di Sezze |
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Tra i tesori più importanti del mio paese il più buono è certamente il Pane Servizio lavorato tra marzo ed aprile 2003 al Forno di Onelia, in rete dal 24 maggio 2003
Il
pane a Sezze – Ricordi di Giuseppina Carocci Il pane fatto in casa a Sezze ha una tradizione antica fatta di usanze e di mestieri spariti. Nel periodo della mia infanzia fino agli anni '60-'70 a Sezze c'erano circa 20 forni. In particolare ne ricordo: tre in Via Cavour, uno, il più recente e risalente agli anni ‘50, alla “torretta” (in Via Corradini), uno a Porta Pascibella, due a Via Umberto, uno all'entrata di Via San Carlo, uno vicino alla chiesa di San Lorenzo, uno alla Stretta Tomassotto, detta anche alla canaletta (uno dei vicoli di Via San Carlo), uno all'Aringo, uno in via Matteotti, uno alle scalelle di Santi Cola (dal nome di un dottore che abitava in Via Scalette della Piazza), uno vicino alle scalette che conducono all'ufficio postale di Piazza de Magistris, uno a Via Pitti, l'ultimo a chiudere i battenti nei primi anni ‘80. La
prima infornata si f Lo ammassavano a casa delle signore che lo facevano di mestiere, le panecochene. Ricevevano mezzo quintale di farina a notte dalla padrona della bottega e dovevano restituirle 50 pagnotte. Il pane che avanzava rappresentava il loro guadagno, da monetizzare rivendendolo alle vicine. Ci campavano ma a volte, se la massa cresceva meno, restavano senza niente, a malapena con una pagnotta per loro. Infatti dovevano anche lasciare delle pagnotte o della massa come compenso ai proprietari del forno, alle fornare, ovvero le addette alla cottura del pane, e alle cariatore, generalmente due per forno, che avevano il compito di “caricare” le pagnotte dalle case delle massaie al forno e di consegnarlo alle botteghe o alle case. Dopo il turno delle botteghe, infatti, le fornare aggiungevano la legna al forno per fare il pane per noi casarecce. Noi eravamo al lavoro già da molto tempo. All'incirca alle 4 di notte, la cariatora ci veniva a dare l’ammassà: chiamando ogni massaia che doveva preparare il pane per la propria famiglia (soccèta) e lasciandole una frasca di legna per avviare il fuoco necessario a scaldare l'acqua. Le cariatore gestivano i turni a seconda delle nostre prenotazioni, del numero di pagnotte che eravamo solite preparare e della capienza del forno. Di solito chiamavano quattro o cinque soccète per turno. Io preparavo 20-25 pagnotte a volta, che dovevano bastare per tutta la famiglia. Per fare il lievito naturale usavamo il criscolo, della massa lasciata acidificare (screscitata) che ammassavamo la sera prima con acqua e farina nel sunnolono (una bagnarola di coccio). Il criscolo era un prodotto di tutto il vicinato. Infatti, facendo il pane una volta a settimana, si lasciava da parte un po’ di massa che sarebbe servita da lievito per il pane delle vicine, le quali, a loro volta, ne avrebbero restituita un po’ della loro nei giorni successiva. Il criscolo non poteva mantenersi a lungo, perciò, se nessuno passava a chiederlo, dopo tre giorni andava comunque “rinnovato”, ovvero impastato di nuovo. In queste occasioni la mia famiglia usava la parte in eccesso per fare la pizza. Se invece il vicinato restava senza criscolo, si andava a chiedere alla fornare di lasciare un po’ di massa da parte, che si sarebbe poi restituita. Una volta ammassate, posavamo le pagnotte sulla spasa, una tavola di legno, dividendole tra loro con un lenzuolo e usando della farina per non farle attaccare alla stoffa. Poi le coprivamo con una o due tovaglie di lana, a volte siglate con le iniziali del nostro nome. Oltre al pane, posavamo sulla spasa anche il muglitto, una sorta di pane integrale che preparavamo con farina e con il triteglio più fino, la crusca che restava sulla setuccia dopo aver setacciato la farina. La crusca più grossa non si buttava, andava al bestiame o si ammassava per farne un pane buono per i cani (lo scacciato). Circa
due ore dopo l’ammassà, la cariatora ci dava lo 'ntavolà, faceva il giro delle soccète per accertarsi
che il pane fosse cresciuto abbastanza per essere intavolato e
infornato. Quando il pane era pronto per tutte, le cariatore prendevano
una spasa per volta e la portavano al forno caricandosela sulla croglia,
un fazzoletto di stoffa che attorcigliavano sulla testa. Perciò se si
voleva fare poco pane, bisognava aspettare ad ammassare oppure occorreva
coprirlo di meno per rallentarne la crescita, altrimenti la massa si
sarebbe screscitata durante
l’attesa. Dopo che la cariatora aveva preso le pagnotte, si raggiungeva il forno. La fornara aveva pulito e preparato il forno e noi dovevamo segnare le pagnotte prima di porle sulla panara, la pala, per farle infornare. Infatti, per riconoscere il pane, ogni soccèta faceva un segno: si poteva fare il cecio, arricciando la sommità della pagnotta, pizzicarla, segnarla con uno o due colpi di forchetta, o disegnare l’iniziale del proprio nome con i denti della forchetta. Le signore ricche si facevano fare dallo stagnaro un timbro con l'iniziale del loro nome. Chi era ricca, o aveva il figlio prete o la figlia monaca o era signorina aveva diritto a far appoggiare la propria spasa sullo spazio più vicino al forno e ad infornare il pane senza segnarlo in quanto di “primo grado”. A volte le cariatore facevano attenzione a chiamare due signore di primo grado in turni diversi. Specialmente se erano persone che ci tenevano infatti, potevano avviarsi discussioni su quale spasa dovesse avere la precedenza. In questi casi, per non scontentare nessuna, la cariatora poteva lasciare ad una il privilegio di porre la propria spasa più vicina al forno, all’altra quello di non segnare il proprio pane. Le massaie di grado più basso non subivano questa discriminazione di buon grado ma protestavano o, prese dalla rabbia, marcavano il loro pane con potenti forchettate. La mia famiglia possedeva delle terre e mia suocera aveva una figlia monaca, perciò eravamo di primo grado. Ricordo ancora che un giorno, la cariatora, mi si avvicinò preoccupata per dirmi che c'era al forno anche una signorina e che, pertanto sarebbe spettato alla sua spasa avere il primo posto. A me non importava, d’altronde si infornava comunque una pagnotta per spasa fino a completare il giro. Piuttosto, cercavo di capitare allo stesso turno di una anziana ed esperta signora, Cintrutella, che imponeva alla fornara di aggiungere più legna perché “lo pane teta veni' cotto!”. Nonostante la fornara si lamentasse, temendo di bruciare il pane, era poi costretta ad eseguire il vivace suggerimento, che si rivelava puntualmente azzeccato. Si pagava la fornara con un fornatico (una pagnotta abbondante, da circa un chilo e mezzo). Poi si lasciava anche la zicarella (una pagnotta normale ma più piccola del fornatico) per il proprietario del forno, spesso appartenente ad una delle famiglie ricche del paese. Alle cariatore, invece, generalmente veniva dato un pezzo di massa, che avrebbero usato insieme a quella delle altre massaie per guadagnarsi la giornata preparando e vendendo la loro pizza. A fine giornata, le cariatore ci riportavano il pane a casa e lo riponevamo nell'arcone, un grosso contenitore di legno, dove custodivamo gelosamente il nostro tesoro. Il pane restava fresco per una settimana. |
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